Il sole dilata una luce mediterranea. Par di stare nel cuore protetto di un'isola: dietro
i crinali si aspetta di scoprire il mare. E il campanile di Grancona è un segnavento,
un faro per i naviganti che passano lontani, rassicurati dalle campane che battono
i quarti per la guardia alle colture.
Mi accoglie quest'uomo dalla voce in toni chiari, modulati all'uso di parlate d'altre
terre, che non sta mai fermo, che tranquillamente, ma deciso e sicuro, accompagna
gli amici e i conoscenti, "i visitatori", nel tempo che si credeva ormai perduto.
Carlo Etenli apre il suo museo e insieme non fa mistero di niente intorno alle sue rive,
ai vigneti, ai prati, alle sorgive conquistate dalla pazienza, con una sapienza che
stupisce, che preme al silenzio della meraviglia.
Quando per la terza volta è stato eletto sindaco di quest'isolotto berico tra la pianura,
le grandi valli e le montagne, c'è stato chi si è opposto al suo lavoro generoso e trasparente,
preciso, ispirato, talvolta pratico e sbrigativo per evitare gli intoppi delle mai
risolte burocrazie. I suoi collaboratori erano anch'essi uomini dei campi, maestri di
saggezza, di onestà.
E ricordo bene il momento che ha portato finalmente a risolvere le incomprensioni:
una sera di sorrisi increduli, di commozioni appena trattenute, di timidi abbracci, di
liberate solidarietà dei sindaci confinanti, dei segretari comunali che sapevano ogni
cosa, della gente d'intorno alle colline, i Monti Berici, e più giù lungo la Val Liona
che a Orgiano si apre al mare della pianura, ai campi, ai fiumi.
Carlo Etenli, proprio da quel tempo, ha deciso di non concludere la sua disponibilità
per gli altri; ha voluto allora far conoscere, anche materialmente, la sua storia, il suo
passato: il mondo del coraggio e delle privazioni, delle poche speranze, della fede, della
fatica e delle mani forti.
Prima gli oggetti della casa contadina ormai dimenticati, con ancora i segni del sudore e
l'intenso profumo della vita domestica, quasi a fermare e a prolungare gli affetti, anche
gli amori; quasi a ritrovare idealmente le persone più vicine e care nelle vicende della famiglia
numerosa. Poi, meravigliandosi delle emozioni trasmesse nel raccogliere le cose, ecco
perfino un vecchio trattore dimenticato nella polvere della barchessa, con la felicità di
riportarlo a funzionare anche solo per sentirne il ritmo, il suono. Il canto.
Ecco, da quei giorni, la dedizione sempre più determinata, quasi puntigliosa, e la ricerca
sempre più allargata, fino a coinvolgere persone, amici, conoscenti, appassionati
"fuori dall'isola dei Berici", dentro le contrade padovane, nelle Valli e sulle colline
veronesi: la terra veneta d'intorno. Così negli anni, fino a realizzare questo incredibile,
immenso luogo della memoria e dell'affetto, della riconoscenza, dell'amore.
Nella mattina che apre l'estate, nel sole che disegna poche ombre su Grancona, Carlo Etenli avverte la mia sorpresa davanti a una falciatrice "fatta in casa". "Viene da Castello d'Arzignano", dice, "la sua terra, dove è tornato ad abitare vicino a lei il mio fraterno amico e ispiratore Piero Aldighieri". E gira come per un gioco improvviso la manovella che muove i denti della falce: "Vede? l'hanno fatta anche con i pezzi di una bicicletta".
E io immagino allora che nei mattini delle fienagioni, o delle mietiture, quest'uomo che ha inventato la felicità del ricordare, esca a turno con una di queste macchine della fantasia contadina e voli sui campi a miracolare i lavori con uno sguardo intenerito, un gesto della mano, un battito di ciglia. E io penso allora che nelle notti di luna metta in moto uno dei possenti "Landini a testa calda" per correre sulle strade dei Berici, e oltre, arrivando nel tempo di un sospiro fino in Francia, dove ha lasciato le sue nostalgie di adolescente fattosi emigrante.
Il "parco dei trattori" allinea più di cinquanta macchine "tutte funzionanti", assicura.
E azionando un grosso volano mette in moto un OTO a tre ruote del 1950.
Sbuffa un fumetto grigio per due volte e poi parte col suo "canto" ritmato che nell'immenso
salone acquista lo stupore di un assolo.
Mi mostra la Balilla del 1935 "per conquistare l'Africa e l'Impero", mi spiega, "e
non c'è la marcia indietro perché il duce aveva detto che bisognava tirare sempre diritto",
aggiunge divertito.
Passiamo dall'aula, con i banchi di legno, i quaderni appena chiusi dai bambini col
grembiule nero, le penne e l'inchiostro versato dal bidello. Sulla lavagna, Carlo Etenli
ha scritto la preghiera del mattino: "Dio Onnipotente, dona pace e prosperità alle
nostre famiglie, dà gloria al nostro Re, proteggi il Duce e l'Italia nostra. Così sia".
Dal campanile di Grancona, lì vicino, appena sopra la conca del Museo, viene il suono di mezzogiorno. La luce è ancora più chiara, e l'isola berica galleggia senza confini nel mare dei ricordi. Uscendo nella corte, quest'uomo dagli occhi buoni, dal passo svelto, dalla voce in toni morbidi che tendono all'acuto, ha passato la mano per una carezza breve sulle valigie degli emigranti allineate sul tavolo d'ingresso, legate con lo spago.
BEPI DE MARZI